Autobiografia: la consapevolezza della storia che ci siamo creati e la progettualità verso cui andiamo
Nell’autobiografia sono gli intrecci e le trame che consentono, prendendo distanza, di intravedere la forma. Occorre accettare che si vive nella propria ombra, quello che noi abbiamo di certo è che ricordiamo di avere vissuto, solo nella condivisione o nell’analisi della differenza esistente fra un prima ed un dopo, noi ci riconosciamo.
Elaborato finale percorso Graphein e Morphosis
di Cecilia De Paola
Sto iniziando a scrivere, questo foglio bianco assumerà significato e prenderà forma, ciò che in questo momento esprimo diventa segno tangibile di quanto sono, il momento sarà immutabile ed al contempo io od altri potremo riviverlo e riviverci in nuove esperienze rileggendolo.
L’autobiografia è […] reca con sé un’ambivalenza, dovuta al rapporto tra realtà e finzione che la sottende. […] La distinzione fra memoria come ars, vale a dire memoria memotecnica, e memoria come vis, ovvero ricordo soggettivo su cui si fonda la costruzione dell’identità [1]
Narrazione e scrittura autobiografica sono, a mio modo di vedere, innanzitutto presa di consapevolezza del proprio essere nel mondo e della possibilità di accettare i propri limiti. Nel racconto autobiografico si raccontano storie diverse, né migliori, né peggiori di altre, semplicemente diverse. La propria storia di vita si intreccia con quella degli altri, si lega e si slega, ed ognuno sceglie cosa trattenere e cosa abbandonare, anche “non prendere” dall’altro è una scelta.
È la scelta che ci rende adulti: sono le scelte che marcano il tragitto del percorso di crescita che chiameremo di “adultizzazione” [2]
La dignità di essere stati presenti nel mondo emerge, si rafforza, e nelle debolezze e nelle difficoltà l’uomo o la donna possono rileggersi.
Nella scrittura autobiografica l’individuo traccia il segno che
è sì voce, ma anche ritmo, perfino silenzio; è collocazione di sé nello spazio e nel tempo. Esso riguarda certo le parole che compongono frasi, ma anche il vuoto tra una parola e l’altra: è respiro. Nella scrittura di sé l’altro è comunque presente.[3]
Si ferma la nostra vita, pur sempre in movimento, su un foglio bianco, si ferma con la presenza degli altri nel nostro raccontarci in solitudine. A volte inaspettati ed inattesi sono i risultati soprattutto laddove ci si lascia guidare dalla scrittura automatica e dalle note che ci trattengono sui ricordi. Non tutto quanto fermiamo sul foglio è bello da ricordare. La possibilità di fermarsi ed abbandonare il cammino, o di fuggire verso quanto ci addolora è concesso. Prendersi cura di sé con la scrittura non significa torturarsi, ma ci sono situazioni, eventi, persone che comunque non dimentichiamo, ci accompagnano a volte sottoforme di odio, altre volte sono risentimenti, altre sono offese. “Il passato che non passa impedisce il futuro” (Natoli). In questa situazione l’autobiografia ci permette di confidare a noi stessi i nostri più vivi dolori, di attraversarli e di collocarli su carta per custodirli o seppellirli. Scrivere i propri dolori consente di distaccarsene, di creare la distanza necessaria per andare oltre, concedersi che sono parte di una storia, la propria storia e per quanto ne siamo permeati sono di un tempo trascorso, di un tempo che è stato: è possibile depositarli.
Dallo scritto autobiografico emergono, anche, tutte le esperienze positive o neutre che comunque hanno formato la persona: letture, musiche, quadri…
Gli oggetti, spesso quelli che rappresentano per l’individuo un feticcio, ci insegnano a conoscerci ed a sentirci parte di un mondo “reale”: gli odori del tempo, il tocco del nostro peluche preferito, il sapore della torta della nonna… Ci si trova immersi con i propri sensi di fronte al foglio, a volte sgomenti, a volte estasiati dalla potenza delle sensazioni rievocate nel momento in cui i nostri occhi scorrendo l’inchiostro ci fanno nuovamente rivivere.
Nel divenire del tempo narrato su un foglio, l’uomo fu, era, è stato ed è.
Nello scandire del tempo di ogni età: fanciullezza, giovinezza, età adulta e senilità; l’uomo o la donna imparano a conoscere la propria storia fuori dagli stereotipi che delineano i contorni delle aspettative comuni. Avere un’età non è più possedere un etichetta e con essa caratteristiche ed obiettivi comuni al resto dei propri coetanei.
Leggersi e conoscersi in forma narrativa dà la possibilità di autoanalizzarsi nei vari toni del nostro esprimersi: retrospettivo, introspettivo, contemplativo, proiettivo.[4] In questo processo la distanza che si pone fra il sé e l’io ricercatore svela il percepito.
L’analisi della scrittura autoanalitica esplora, dunque, non stili letterali bensì processi mentali, che, prima con la scrittura e in seguito con una lettura al leggio introspettivo – più assorta e concentrata –, ricercano gli “esistenziali” presenti in un racconto: i motivi conduttori, le trame, i problemi irrisolti della propria emotività e affettività ferita, soddisfatta e appagata, gli attacchi fatali per persone e cose, la relazione con le esperienze di perdita, della morte.[5]
La messa in evidenza delle posizioni esistenziali adottate nel corso della vita permette all’autore del racconto di prendere coscienza della propria postura come soggetto e delle idee che, consciamente o meno, strutturano tale postura.[6]
La mia esperienza autobiografica, intrapresa durante un biennio difficile dal punto di vista esistenziale nei quali i costrutti di base sono stati minacciati e si sono ampliati mi ha dato modo di affrontare i miei timori e gli “scheletri nell’armadio” utilizzando spesso solo citazioni, approfondite solo in separata sede. Scrivere è concedersi, spesso ho letto nel mio non detto la volontà di proteggermi o di proteggere chi amo e solo nei momenti più critici ho urlato i nomi di chi più amavo. Nella mia esperienza narrativa ho commesso un sacco di errori, l’elaborato finale più che una autobiografia è stata una serie di racconti di una donna non nata e senza nome, che non aveva alcuna intenzione di “stare” per altri su dei fogli. Occorre avere pazienza nella conoscenza e nella costruzione del proprio sé, occorre conoscere la propria danza e, se possibile apprendere o lasciare che altri ci insegnino i loro passi affinché l’armonia si possa compiere ed il gesto da confuso diventi estetico.
Nel momento in cui si sceglie di avvicinarsi al racconto di sé si vive un momento di ricerca, dentro di sé od intorno a sé c’è movimento. All’inizio di ogni esperienza non si ha alcuna certezza di cosa aspettarsi a maggior ragione nel momento in cui ci si trova di fronte al proprio specchio. Riflettere sé stessi, di e per sé stessi significa propendere alla propria autopoiesi. Quale possibilità di crescita c’è nella nostra storia? Quale direzione ci conduce il cammino? Siamo attenti all’ascolto di quello che di noi parla o nemmeno quando le nostre esigenze si manifestano urlando siamo disposti a comprenderci?
Spesso durante questo percorso mi sono interrogata sul fatto di quanto fosse difficile rispettare le consegne. In realtà nulla è stato più utile per evitare il rischio di disperdersi, di continuare a riprendersi in mano nella ricerca di una perfezione che non esiste. La storia personale non sarà mai ferma, ogni esperienza la modifica e ci consente di eseguire una reinterpretazione. Non tutto e soprattutto non tutto insieme, nell’accettazione dei nostri limiti, nel testo scritto è il fluire, il processo che regola la nostra vita. Nell’autobiografia sono gli intrecci e le trame che consentono, prendendo distanza, di intravedere la forma. Occorre accettare che si vive nella propria ombra, quello che noi abbiamo di certo è che ricordiamo di avere vissuto, solo nella condivisione o nell’analisi della differenza esistente fra un prima ed un dopo, noi ci riconosciamo. Essere “vivi” nel mondo è per me essere consapevoli del momento e delle differenze. La pratica di scrittura autobiografica è uno dei metodi più efficaci per compiere la consapevolezza della fenomenologia.
La fenomenologia si pone di descrivere il fenomeno “così come esso si dà”, per coglierne la pura forma, o essenza, o idea (eidos). Il procedimento fenomenologico esige quindi una preliminare “riduzione eidetica”: ogni giudizio comune viene sospeso (epoche), ogni teoria viene posta tra parentesi, affinché il fenomeno emerga nella sua genuina datiti essenziale.[7]
Nel testo scritto si ha poca possibilità di nascondersi, qualora il processo che si intraprende cerca di essere svincolato dall’apparenza. Nella libertà di leggere o meno di sé agli altri e nel non dover per forza riportare od essere interrogato per verifica l’individuo (personalmente è questo che mi è accaduto) si sente smarrito. Dove si trova? È giusta la strada che sta intraprendendo?
Quali le condizioni che facilitano la narrazione/scrittura di sé e il lavoro con la memoria autobiografica.
Un formatore autobiografico non suggerisce la risposta ma aiuta il cammino di chi sta imparando ad autoformarsi. Chi può dire con certezza che una strada sia assolutamente corretta? Il narratore sa, ha tutte le sue risposte, le deve scoprire o meglio deve imparare a leggerle. Nel momento in cui una persona decide di rendere parte qualcun altro della sua storia o di alcuni passi di essa l’unica risposta possibile sia il rilancio a sollecitazioni per indurre ad approfondimenti. Nessun compiacimento, nessuna critica, i partecipanti al colloquio autobiografico esprimono il loro sentire precisando quanto provano in prima persona, ma le critiche negano all’altro la possibilità di affermare una esperienza di vita. Sono opportuni laboratori al fine di sperimentare in ambiente “protetto”, quali i corsi presso la LUA, l’esercizio di essere nel mondo legittimi proprietari di esperienza. Riflettere sulla propria storia…
Non necessariamente per il conseguimento delle conclamate virtù filosofiche (saggezza, temperanza, equilibrio, ecc.) che hanno dato luogo alla costellazione di un’etica della maturità, quanto piuttosto per l’assunzione di pratiche mentali di cura della propria autonomia e indipendenza di pensiero, di linguaggi non tecnici volti a rendere l’autoriflessione e l’attività introspettiva un modo di essere, oltre che un modo di conoscere e conoscersi.[8]
Nei laboratori questo dovrebbe essere uno dei punti di forza dei formatori in campo autobiografico. Dove sono io come formatore? Dove si trova l’altro, in questo preciso momento, rispetto a me? Cosa dice a me l’esperienza che racconta, ed a lui? Perché ha scelto questo racconto?
Leggere od ascoltare racconti autobiografici mi consente di essere parte delle altrui storie, quei momenti o quelle situazioni che io non ho incontrato un po’ per caso, un po’ per valutazione, ma che comunque non ho vissuto. Ho già accennato alla convinzione che ogni esperienza insegna e ci cambia, nutrirsi degli altri è per me essere integrata, seppur in modo illusorio, in eventi che assumono significato e senso, è presentarsi in una palestra di vita dove posso accettare di fare esercizi o sottrarre le mie attenzioni. La scelta finale è mia, sono io che decido di sostare oppure pongo degli ostacoli fra me e l’altro/gli altri. Mettersi in gioco è rischioso nei rapporti, a volte, per il bene dell’altro, il desiderio di sottrarsi è forte.
La storia dell’altro sempre si concatena con la mia storia, è fondamentale perciò riconoscer risonanze, rimandi, coinvolgimenti, attese e guadagni sperati. […]Cosa ci attendiamo di ricevere o cosa stiamo cercando di evitare. […] È possibile insieme, e grazie al paziente, cominciare a sperimentare e ad apprendere quanto, da soli, non riuscivamo o non osavamo ancora. [9]
La relazione con l’altro diventa momento di accoglienza
L’altro si apre a noi, ha voglia di intraprendere un rapporto nel momento in cui si sente compreso.
Prima di parlare di comprensione e relazione credo sia necessario che il formatore/operatore sia cosciente della propria formazione, della propria etica, quale che sia la qualità del rapporto che intende instaurare è opportuno conoscere il punto in cui ci ritrova.
Per quanto mi riguarda il percorso autobiografico mi ha avvicinato ad un approfondimento ricorsivo di tipo buddista. Non sono buddista, o forse non sono ancora consapevole di esserlo, ma credo che la pratica dell’ottuplice via sia la via verso una “vera” consapevolezza.
Ogni dimensione o stato della ricerca interiore include le altre. […] Gli otto sentieri prevedono:
- la retta comprensione (della sofferenza, della sua origine, della sua soppressione, della via che porta ad essa)
- la retta motivazione (alla rinuncia, all’amorevolezza, alla non violenza)
- la retta parola (l’adozione della coerenza nelle manifestazioni verbali e nella trasmissione del sapere)
- la retta azione (la coerenza nelle scelte e nelle decisioni)
- il retto modo di vita (l’apppllicazione del comportamento ispirato all’etica buddista nella vita quotidiana)
- il retto sforzo (la prevenzione degli starti mentali nocivi o l’abbandono degli stati salutari già adottati)
- la retta consapevolezza (senso del proprio corpo, delle emozioni, dell’attività mentale della meditazione)
- la retta concentrazione (che consente di unificare le parti divise degli stati interiori e della mente)[10]
Essendomi posizionata rispetto a me stessa, mi chiedo quale rapporto intendo instaurare con l’altro? Da cosa dipende l’accoglienza? Nel racconto orale l’altro innanzitutto mi vede, salvo in casi estremi di handicap, mi viene naturale controllare la postura, cerco le tensioni del mio corpo, rilasso il volto, sento il mio respiro e cerco la sua regolarità. Nel rapporto con l’altro entrambi si è esposti. Mi pongo verso l’altro con fiducia, credo che ognuno di noi abbia in sé la capacità di comprendersi e di conoscersi. Non tutti sono disposti a far rientrare fra le proprie possibilità quelle della scelta, spesso nella propria crescita si sente costretti a prendere una decisioni, vivendo in particolari ambiti familiari, culturali, religiosi, ecc. Occorre, a volte, attendere, è importante che il tempo non sia una chiave determinante, anche se l’individuo vuole cambiare non è detto che sia il momento più adatta. Imparare a rispettare il tempo, gli eventi devono compiere la loro propria curva di vita. Nella teoria dei costrutti personali di G. Kelly, tutt’altro che recente essendo del 1951, l’uomo-come-scienziato lavora su costrutti personali bivalenti all’interno del quale cerca di confermare o meno le proprie esperienze. Nel momento dell’inatteso, della disconferma, l’individuo ricerca, si sente smarrito e ricerca di adattare le proprie certezze.
[1] I. Gamelli (a cura di), Il prisma autobiografico, Edizioni Unicopli 2003
[2] D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore 1996
[3] I. Gamelli (a cura di), Il prisma autobiografico, Edizioni Unicopli 2003
[4] D. Demetrio, Autoanalisi per non pazienti Inquietudine e scrittura di sé, Cortina Milano (per approfondimenti sull’argomento)
[5] Ibidem pag. 205 (il grassetto è stato utilizzato da chi scrive)
[6] G.P. Quaglino (a cura di), Autoformazione. Autonomia e responsabilità per la formazione di sé nell’età adulta, Raffaello Cortina Editore (pag. 159)
[7] dal significato del termine: fenomenologia – L’universale: Filosofia Vol. I Garzanti Libri SpA, 2005
[8] D. Demetrio, Filosofia dell’educazione ed età adulta, UTET 2003 (pag. 142)
[9] il rumore delle pietre verità e finzione nelle storie cliniche e nelle pratiche di cura di G. M. Sala – tratto da Il prisma autobiografico a cura di I. Gamelli – Edizioni Unicopli 2003
[10] D. Demetrio, Manuale di educazione degli adulti, Editori Laterza 2003
Atteggiamento che personalmente scelgo durante l’attività autobiografica
Gli otto sentieri
la retta consapevolezza (senso del proprio corpo, delle emozioni, dell’attività mentale della meditazione)
la retta concentrazione (che consente di unificare le parti divise degli stati interiori e della mente)[10]